Yan Shan

11. mar, 2017

Yan Shan

Yan Shan

"Era notte fonda. I corridoi del Beijing hotel erano bui e silenziosi (fig 1,2,3,4). In fondo, solo le ultime due stanze erano illuminate. In una, un gruppo di camerieri dormicchiavano davanti a un tavolo su cui erano poggiati più o meno alla rinfusa dei tramezzini, alcuni biscotti ed alcune bottiglie. Dall'altra giungevano voci intervallate da lunghi silenzi, durante i quali si percepiva un brusio indistinto". Così iniziava un bellissimo articolo del Corriere della Sera che ancora ricordo come fosse ieri dopo quasi quarant'anni.

Ma andiamo con ordine. Vi ho già detto della mia "prima volta" in Cina e di alcuni episodi di quel primo periodo lì. La sera di cui vi parlo oggi segnava allo stesso tempo una fine ed un principio. La fine di un estenuante negoziato in cui, assieme ai miei colleghi, mi ero affacciato a un mondo assolutamente sconosciuto (del resto lo è ancora oggi per la maggior parte degli occidentali che non hanno l'umiltà di cercare di capirlo) e l'inizio della fase di realizzazione dei cinque impianti il cui contratto stavamo firmando quella sera.

Se chiudo gli occhi, rivivo ancora i momenti, le sensazioni, le emozioni, gli odori e i colori di quel periodo così affascinante ed entusiasmante. Cercherò, anche se sarà molto difficile, di traferire su carta alcune di quelle immagini nelle mie prossime note.

La storia nasce con un antefatto. Un pomeriggio ritorno casa molto prima del solito e dico a mia moglie "sbrigati, andiamo a vedere un negozio di moquette".

"Ma che ti prende? - è la risposta- a casa nostra la moquette non entrerà mai"

" E chi ti ha detto che dovrà entrare. Sbrigati e poi ti spiego"

E così fu che andammo in un negozio specializzato e ci facemmo spiegare vita, morte e miracoli di quell'oggetto misterioso che era la moquette.

Cosa era successo? Quella mattina, appena arrivato in ufficio, mi aveva chiamato il mio capo e mi aveva detto " il nostro agente a Hong Kong ci ha proposto di fare un'offerta per cinque impianti in Cina. Il Cliente è uno dei più importanti gruppi petroliferi e petrolchimici cinesi. Tu dovrai occuparti della parte tecnologica e del supporto da Roma del gruppo che andrà a negoziare. Sono impianti nuovi per noi, quindi ho pensato a te che ti  occupi di innovazione."

"Benissimo, di che impianti si tratta?"  "Moquette, sottofondo per moquette, filati per moquette e tappeti, tappeti, sacchi tessuti, più alcune unità di oggetti vari"

" E noi che c'entriamo. Anzi IO che c'entro?"

"Tutti questi impianti hanno una caratteristica in comune” - fu la risposta – “partono da granuli di polipropilene (a quell'epoca in Italia tutti conoscevano il moplen, se non altro per la pubblicità di Bramieri). Per noi si tratta di un'occasione unica per entrare definitivamente in Cina dove fino ad ora abbiamo fatto solamente un lavoretto. Quindi datti da fare".

A quell'epoca la protesta sul lavoro non era prevista, e così cominciò la storia. Accettai la sfida anche perché avrei potuto continuare la mia vita universitaria che mi avrebbe tenuto in contatto con la tecnologia, quella  “vera". Poi ci fu l'incidente al mio collega di cui vi ho parlato e il mio mondo cambio del tutto.

Lì a Zhou Gu Dian, non esisteva niente di tutto ciò a cui eravamo abituati per svolgere il nostro lavoro. Un giorno per esempio avevamo urgenza di far fare delle copie eliografiche (le cianografie, qualcuno le ricorda?) a partire dai disegni su carta lucida. Li consegnammo all’onnipresente interprete spiegandogli che erano molto urgenti e che avremmo avuto piacere di riceverle entro qualche ora, “Non è possibile” disse l’interprete, e scomparve. Finalmente il giorno dopo, a fronte delle nostre proteste, ci spiegò “ servono tre giorni”;

“ e perché? Bastano dieci minuti”;

“ perché per tre giorni puzzano di ammoniaca” fu la chiusura definitiva del discorso. Era vero, ma che importanza aveva? Avevamo imparato però che ogni ulteriore richiesta o sollecitazione si sarebbe scontrata con il silenzio ed un sorriso.

Una sera, dopo due domeniche trascorse “in branda” senza neppure poter andare a Pechino, i nostri “amici carcerieri” decisero di portarci a cena fuori. Dopo pranzo, salimmo sul solito pulmino sgangherato e partimmo. Eravamo un gruppo numeroso perché, oltre a noi italiani, c’erano quattro o cinque austriaci di una società che ci forniva dei macchinari per tessere i sacchi. L’idea di uscire dalla nostra gabbia ci rendeva euforici, guardavamo il paesaggio con colline e brevi radure che si susseguivano l’una all’altra (fig. 5). Non pensate però alle colline toscane, piene di verde e punteggiate da alberi. Qui era tutto grigio: le colline brulle, gli alberi spogli e coperti di polvere grigiastra e i villaggi anch’essi desolatamente grigi e recintati dal solito muro che chiudeva tutto, anche l’ingresso, per evitare come vi ho già detto che entrassero gli spiriti del male. Ma andava bene così, eravamo allegri e chiacchieravamo.

Arrivammo al ristorante e la cena fu assolutamente piacevole, costellata di “campei” del solito “Maotai” (vi spiegherò un’altra volta questo rito “alcoolico”) per cui, nonostante le precauzioni, alla fine eravamo tutti piuttosto “allegri”. Devo dire onestamente che i nostri anfitrioni facevano di tutto per tenerci su di spirito e le chiacchierate erano sinceramente amichevoli anche se si poteva discutere solo del tempo e poco più. Qualunque approfondimento anche banale, come per esempio chiedere cosa c’era scritto nei giganteschi manifesti rossi che si vedevano ovunque, era inopportuno.

Finita la cena era già buio, faceva freddo e ci imbarcammo di nuovo nel pulmino che cominciò il suo viaggio di ritorno. Immaginatevi la scena: era tutto assolutamente buio, non c’erano luci stradali, e quando si passava accanto a un villaggio le case erano illuminate come si usava allora fuori Pechino. Ogni appartamento (nella maggioranza dei casi monolocale) disponeva di una sola lampadina da 25 candele che emanava una luce fioca in cui ci si poteva a malapena muovere. Visti da fuori questi villaggi sembravano altrettanti cimiteri illuminati dai lumini votivi: una tristezza senza fine!

Ma almeno c’erano i fanali delle automobili? Neanche quelli, infatti gli autoveicoli, già rari in assoluto, una volta fattosi buio scomparivano del tutto ed i pochissimi ancora in movimento (incluso il nostro) camminavano con tutte le luci spente. Perché? Non lo sapemmo mai, ma un’idea ce la eravamo fatta ed era in linea con il clima di guerra fredda dell’epoca. La paura dei bombardamenti!!. Tutti vivevano con quell’attesa. Lo stesso stabilimento, invece di essere nella zona pianeggiante, era situato dove cominciavano le colline, le sue varie sezioni erano disperse fra una collina e l’altra e anch’esse completamente buie. Solo una luce, luminosissima, era visibile a trenta chilometri di distanza; era la torcia, inevitabile in ogni stabilimento e in quell’impianto particolarmente alta e potente. Essa però, come avemmo modo di verificare era lontanissima dagli impianti, completamente isolata e avrebbe guidato gli aeroplani nemici nel posto sbagliato.

Ma torniamo a noi. In quel buio pesto capitava di incontrare di tanto in tanto un altro veicolo anch’esso buio. I due autisti, appena resisi conto uno dell’altro, accendevano improvvisamente i fari, abbagliandosi reciprocamente e rischiando di andare fuori strada. Anche di quella manovra non capimmo mai il perché.

Lo stesso cielo cospirava contro di noi. Sarebbe stata l’occasione di vedere un meraviglioso cielo stellato, ma nella zona di Pechino le stelle non si vedono mai. Già allora l’inquinamento generato dalle centrali e dal riscaldamento domestico, creava un’atmosfera permanentemente opaca.

Penso che a questo punto il nostro stato d’animo fosse assolutamente ovvio. Stavamo tornando in cella per almeno un’altra settimana, non avevamo notizie delle nostre famiglie lontane di cui sentivamo la mancanza, avevamo finito, dopo qualche mese di quella vita a stretto contatto di gomito, tutti gli argomenti di conversazione, avevamo tutti meno di quarant’anni e ci chiedevamo se le prospettive di carriera, la voglia e l’entusiasmo di conoscere un mondo nuovo, potessero giustificare tanti sacrifici. Era inevitabile che ognuno di noi si chiudesse in se stesso, e la malinconia si impadronisse di tutti noi.

A un certo punto, all’improvviso una voce si levò fievole, non ricordo più se da un italiano o da un austriaco, ma così distanti da casa, naufraghi in un mondo sconosciuto e a noi estraneo, non c’era più differenza: eravamo europei nella sconfinata Asia. A quella voce se ne aggiunse un’altra, e poi un’altra e un’altra ancora finche non ci ritrovammo tutti a cantare ……

“Tutte le sere sotto quel fanal presso la caserma ti stavo ad aspettar.

Anche stasera aspetterò e tutto il mondo scorderò con te Lili Marleen, Con te Lili Marleen.

O trombettiere stasera non suonar, una volta ancora la voglio salutar.

Addio piccina dolce amor, ti porterò per sempre in cor. Con me Lilì Marleen, Con me Lilì Marleen

Dammi una rosa da tener sul cuor legata col filo dei tuoi capelli d’or

Forse domani piangerai ma dopo tu sorriderai. A chi Lilì Marleen, A ch Lilì Marleen

Quando nel fango debbo camminar sotto il mio bottino mi sento vacillar.

Che cosa mai sarà di me? Ma poi sorrido e penso a te. A te lilì Marleen A te Lilì Marleen

Se chiudo gli occhi il viso tuo m’appar come quella sera nel cerchio del fanal

Tutte le notti sogno allor di ritornar, di riposar. Con te Lilì Marleen, Con te Lilì marleen   

Tutte le notti sogno allor di ritornar, di riposar. Con te Lilì Marleen, Con te Lilì Marleen  

Perché cominciammo a cantare tutti insieme, ognuno nella sua lingua, quella canzone antimilitarista nata nella prima guerra mondiale e poi cantata durante la seconda guerra mondiale su tutti i fronti di guerra dai soldati di tutte le nazioni in tutte le lingue? Non lo so proprio.

Non conoscevamo tutte le parole ma ognuno di noi ripeteva quella nenia, e cantandola pensava ai propri cari lontani. Ancora oggi, mentre scrivo, ho le lagrime agli occhi e un groppo alla gola.

Sono passati quarant’anni ma certe emozioni non si dimenticano mai!

Non voglio chiudere così, con le lagrime agli occhi, e vi faccio veder una foto che vi stupirà. Quando si sente dire “ la città che non dorme mai” si pensa immediatamente a New York, città pulsante di vita ad ogni ora del giorno e della notte. La foto che vedete (Fig 6) invece è stata scattata recentemente dalla mia camera d’albergo, a Pechino e si vede il traffico sul terzo Ring (quindi non in estrema periferia ma neanche in centro) alle tre di notte. Qui non si dorme mai veramente

La prossima volta vi parlerò di altri episodi a partire dalla descrizione dei brindisi con il Maotai.

Ultimi commenti

23.11 | 15:42

Grazie, leggo sempre con piacere i tuoi articoli.

19.09 | 17:02

O.K. !!!

31.05 | 14:33

Grazie a te. So bene che i miei articoli sono abbastanza "pesanti" e quindi talvolta noiosi

31.05 | 13:16

Notevole questo articolo del 30 maggio. Attendo con impazienza il seguito tra un mesetto! Grazie Nino per il tempo che dedichi a provare a colmare la nostra immensa ignoranza. A presto.

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